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Il paese

 

Collefracido è una piccola frazione del Comune di L’Aquila.

Dista  9 chilometri dal Capoluogo abruzzese e sorge a circa 770 metri dal livello del mare.

Gli abitanti che risiedono nel piccolo paesino sono pressappoco 150.

E’ un paese troppo piccolo per lasciare testimonianze del suo passato sui libri e quindi bisogna cercare nei suoi luoghi di culto, nella storia scritta sulle sue pietre e nella sua leggenda.

Sono le sue chiese,le sue pietre e la sua leggenda che ci fanno immaginare ed assaporare un passato, per noi incomprensibilmente duro che sa di forte lavoro e gentile preghiera. Di sacro coraggio e timoroso rispetto del sacro.

Le chiese sono due: Ci raccontano di icone, di martiri e di antico cristianesimo.

Le pietre non sono molte: Ci parlano di un tempio e di uno schiavo romano divenuto libero.

La leggenda è una sola: Ci narra dell’origine del suo inconsueto nome. Del come e del perché di questo nome.

Queste chiese,queste pietre e questa leggenda provengono dal nostro passato e ci uniscono in un’unica radice. Quella delle nostre origini.

 

LA CONA

Da sempre l’essere umano colma le sue angosce e le sue paure attingendo forza vitale e coraggio da riti e preghiere rivolte al sacro. Invocando ed evocando, dichiara, incondizionatamente ed esplicitamente, la sua totale subordinazione al divino.

Lontano dai grandi centri, le piccole comunità erigevano umili santuari con grandi sacrifici. L’indissolubile legame col divino rendeva indissolubili anche i legami umani nel condividere sacrifici, disagi, aspettative e speranze.

I luoghi di culto a Collefracido sono due e si trovano all’inizio ed alla fine del paese: un’edicola dedicata alla “Madonna del buon consiglio” e la chiesa parrocchiale dedicata a “S. Eugenia” ed a “S. Rita”.

Li visiteremo percorrendo la strada che attraversa il paese. Avremo così il modo di fare una bella passeggiata che ci farà assaporare antiche radici.

Il tragitto inizia con l’erta salita della cona, percorribile solo a piedi, alla cui fine vi è l’edicola della “Madonna del buon consiglio” con la facciata rivolta verso uno spiazzo che i paesani chiamano “l’ara”.

“La cona” è un termine dialettale che sta a significare “l’icona”. Infatti, dentro vi scorgiamo un affresco di fattura settecentesca che raffigura una “Madonna con bambino”. Purtroppo l’icona vera e propria non c’è e l’affresco supplisce a tale mancanza.

Ai giorni nostri il significato di icona ci sfugge e, noi cosiddetti moderni, vediamo ed interpretiamo un’icona come fosse un prodotto di arte sacra di tempi ormai lontani dandogli un valore artistico che inevitabilmente si tramuta in valore di mercato.

Niente di più sbagliato; per l’umile abitante di un paese come Collefracido l’icona era l’equivalente pittorico delle sacre scritture. In altre parole: Se la bibbia fu scritta da Dio; l’icona fu dipinta da Dio. Quell’icona era una rappresentazione reale del divino e la Madonna con bambino che vi erano rappresentati erano per loro, non solo la vera immagine della Madonna e di Gesù bensì la Madonna e Gesù stessi.

Con questa premessa si comprende un po’ meglio quale poteva essere la potenza divinatoria di un’immagine che i nostri occhi quasi non vedono.

Poniamoci alcune domande:

Siamo in grado di capire quelle genti di quel lontano passato che mungevano le loro pecore e trescavano il loro frumento sull’ara al cospetto della cona mentre rispettosamente pregavano invocando la benedizione della Madonna per ringraziarla di quei doni e farsi benedire il latte ed il grano?

Siamo in grado di capire quelle giovani donne che dedicavano alla Madonna soavi preghiere affinché le rendesse fertili per garantire ai loro uomini una discendenza?

Siamo in grado di capire quel viandante che passando di li volgeva un saluto di devozione alla vergine che vegliava sul paese proteggendolo da malintenzionati?

Per capire meglio, la nostra fantasia deve fare un lungo percorso a ritroso ed immaginare.

Immaginiamo per un momento le condizioni umane nel medioevo. Per noi è molto difficile ma fare un piccolo sforzo ne vale la pena. Come era lo standard sociale, culturale, civile ed economico di chi viveva in un paese dove i principali mezzi di sostegno erano l’agricoltura e la pastorizia? Sicuramente non si viveva nell’agiatezza. Le epidemie erano all’ordine del giorno. La campagna non sempre produceva in abbondanza e spesso le scorte non bastavano fino alla primavera; Senza contare le scorribande barbare e le angherie dei nobili che possedevano la quasi totalità dei terreni coltivabili. In queste condizioni la vita media superava raramente i quarant’anni che venivano vissuti con indicibili disagi e sofferenze.

Il recente sisma ha portato alla luce un arco sul frontale di questa piccola chiesa. Solo gli anziani del paese ne erano a conoscenza. Con la lenta decadenza delle tradizioni quella rappresentazione divina ha lentamente perso il suo originario significato e all’edicola, che era un edificio aperto, venne celato l’archetto che fu sostituito con una porta da aprire solo per officiare occasionalmente qualche funzione religiosa.
Se ci mettiamo di spalle alla chiesa possiamo immaginare (solamente immaginare) ciò che una volta vedeva la Madonna quando non c’erano porte e catene ad impedirgli la vista.

Ai nostri giorni l’ara svolge funzioni del tutto diverse da allora. Al centro c’è un fontanile costruito negli anni sessanta il cui abbeveratoio non serve più per dissetare le bestie ma tiene al fresco cocomeri e bevande durante le feste paesane.

Attraversiamo l’ara con lo sguardo della madonna che ci accompagna e ci protegge ed imbocchiamo via Ciotti che è la via principale del paese.

 

IL CENTRO DEL PAESE.

Imbocchiamo la stretta via Ciotti e ci troviamo tra due file di case. Osserviamole: sono tutte in pietra; la materia prima che da sempre è servita per costruire queste case. Usare la pietra per edificare è stato in passato il sistema meno costoso e più immediato. Il paesaggio circostante abbonda di questo materiale pesante e poco malleabile, il cui unico vantaggio è il costo nullo.





Purtroppo questo materiale ha un grande difetto: non è in grado di resistere agli eventi sismici. Le scosse di terremoto, con le vibrazioni, fanno tremare le costruzioni che cadono e si accartocciano, schiacciando come topi le persone che ci abitano. La storia dei terremoti da queste parti è molto lunga e altrettanto triste. È una storia che il nostro inconscio si porta appresso fin dalla notte dei tempi ed ogni evento sismico risveglia in noi paure ed ansie che mai si affievoliscono.

È doveroso, a questo punto, fare di nuovo un viaggio fantastico nel passato ed immaginare.

Immaginare la gente che, dopo ogni distruzione, ricostruisce. Ricostruisce di nuovo e testardamente con la stessa pietra traditrice che non ha retto. Questo non per tradizione, ma per necessità; solo per necessità. All’osservatore poco attento, il metodo costruttivo in pietra, potrebbe sembrare una tradizione che si perde nella notte dei tempi. Non è così: Edificare con la pietra non è stata mai una tradizione ma una necessità dovuta alla miseria che non consentiva ai popolani metodi alternativi. Immaginiamoli allora mentre ricostruiscono usando materiali poveri con la coscienza che non avrebbero retto una scossa futura certa. Immaginiamoli mentre si riparano in dimore con la convinzione che prima o poi sarebbero crollate.


Ed ecco di nuovo il sacro ad attenuare le angosce. Sopra ad ogni arco del portone di ingresso, l’immancabile croce a proteggere la casa e chi vi abita.

Addirittura, osservando le nude pietre, si possono scorgere dei simboli che si rifanno a devozioni precristiane.

Le forme degli edifici e la suddivisione degli spazi sono semplici. Quasi tutte le case sono composte di un pianterreno e di un primo piano (solo qualche rara eccezione dispone di un secondo piano). Il pianterreno era adibito a stalla, mentre l’abitazione era al piano superiore. Il solaio era di legno ed una scala non molto comoda collegava i due vani. Era il calore delle bestie che in inverno scaldava l’ambiente. Solo in seguito, negli ultimi due secoli vi sono state aggiunte delle scalinate esterne per collegare i due vani.

Dopo una decina di metri dall’imbocco della strada, vediamo alla nostra sinistra una vecchia casa con le pareti annerite di fuliggine. È il vecchio forno. Quanto pane vi è stato prodotto…

Continuiamo a camminare. Vecchie porte con sull’uscio un piccolo buco che permetteva ai gatti di entrare ed uscire a piacimento. Inizialmente una breve discesa, poi una leggera salita passando d’avanti al negozio di generi alimentari che attualmente è l’unica attività commerciale del paese. Ancora qualche passo, giriamo a destra e poi a sinistra passando sotto l’arco.

Quello che si presenta alla vista è, allo stesso tempo, il luogo più significativo e romantico del paese: una piccola chiesa con semplice facciata in stile romanico. L’ambiente invita al silenzio.
Camminiamo ancora per qualche metro e giungiamo alla fontana del paese. Attualmente è abbandonata a se stessa e l’incuria umana la degrada irrispettosamente. Fu costruita negli anni 20. All’epoca rappresentò una vera conquista per il benessere di questo paesino. Fino ad allora, l’acqua la si andava a prendere a “Fonte santa”; una fontana con acqua sorgiva che dista circa tre chilometri dal paese.

Ogni giorno, le nostre forti donne, scendevano a valle, attraversavano il “Rio” su ponti di fortuna, risalivano per “le viarelle” e raggiungevano la fonte, dove, dopo aver fatto la fila (di questa fonte si servivano anche le donne di altri paesi del circondario), riempivano le loro conche, per riportarle a casa piene d’acqua. Portavano la conca sulla testa e, sfiancate dalla fatica, tornavano verso il paese.

La fontana in se non ha niente di artistico, ma la memoria del suo significato storico non può e non deve morire. Noi, che rappresentiamo il presente, dobbiamo tener conto di questo. Non si tratta di ripristinare usanze o di tenere in vita tradizioni. Si tratta di risvegliare in noi un’empatia storica che ci porta a conoscere più a fondo le nostre origini per un unico motivo: capire chi siamo.

Capire chi siamo significa innanzitutto capire quei contadini grati al sacro, quelle donne con la conca, queste case di pietra e questa fontana. Se riusciamo a capire queste cose allora capiremo anche che le fatiche dei nostri antenati non sono state inutili e, se noi esistiamo, il merito è solo ed esclusivamente loro.

Siamo giunti alla parte opposta di Collefracido. Sediamoci sul bordo dell’abbeveratoio e riposiamoci.

Chi è del posto, ma vive in luoghi molto lontani da qui, porta queste cose nel cuore e ben capisce (più di chi ci vive) quanto significano questi ricordi.

Questa passeggiata, iniziata dalla “Cona” è, anche questa, immaginaria. Un’immaginazione molto sofferta dato che nella realtà nulla corrisponde a ciò che finora è stato descritto. L’ultimo evento sismico ha gravemente danneggiato il centro storico ed attualmente non è permesso entrarci. Dappertutto transenne e puntellature ad impedire il definitivo crollo del paese. Motivo in più per scrollarci di dosso paure e tentennamenti, per rimboccarci le maniche e per iniziare un nuovo

(continua......)

 

(descrizione del paese a scuola da parte dei bambini)






Galleria fotografica Paese
2011




Galleria fotografica Paese
2017


Associazione 6 Aprile  Via Monsignor Giovanni Ceci - 67100 Collefracido di Sassa (AQ), codice fiscale: 93045450660